SON TUTTE BELLE. PANCHINE ROSSE NEL PONENTE LIGURE CONTRO IL FEMMINICIDIO

Questa è una lunga storia di donne massacrate dal loro amore. Anche nel nostro Ponente ne abbiamo avute troppe. Alcune di loro, vittime di un famoso serial killer al quale nel 1998 tra tante donne, gli scapparono non si sa come, due colpi di pistola a un doganiere in servizio a Latte. #nowomannopanel

di Tiziana Pavone

Oggi è una giornata nobile ovunque: si celebra la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Per non dimenticare e per sensibilizzare, è nata da qualche anno l’iniziativa di installare nei luoghi pubblici delle città le panchine rosse. Un movimento destinato a crescere, osservando il numero sempre più alto di Comuni che trovano un posto per accogliere le panchine. Ormai ce ne sono di molti tipi e la collocazione non è solo nei parchi o nelle piazze. Anche davanti a scuole, Comuni, fermate di autobus, prati all’aperto, in montagna come al mare.

Anche nella nostra provincia ogni Comune ha provveduto a individuare almeno un luogo per le installazioni. Da Imperia, Riva Ligure, Arma di Taggia, Sanremo, Bordighera, fino a Ventimiglia, quasi tutte le cittadine ne hanno più di una.

Il fenomeno della violenza sulle donne, meglio conosciuto come femminicidio, non ha colore politico: riguarda tutti, donne e uomini. E’ un fenomeno che va debellato e che, come si legge tra gli slogan, dipende da noi. Ci vorrà del tempo. Ma le nuove generazioni di maschi stanno crescendo meglio dei loro padri. Dimostrano infatti di avere più rispetto per l’universo femminile. E soprattutto, di viverlo dentro. Non censurando più il lato lunare, il contatto con l’anima, la sensibilità.

Si. Va bene: denunciare! Ma se si deve tornare a casa da lui, poi che succede?

Ancora oggi si fatica a denunciare. I motivi sono circoscritti: non si ha un altro posto dove andare; non si vogliono traumatizzare i figli piccoli; si ha paura della gogna pubblica; si ama troppo e ci si illude di poter cambiare un uomo violento. Lasciando in secondo piano le motivazioni personali, che, in certi casi, sono materia per psicologi (provateci voi, a far separare un sadico e una masochista!), quello che possiamo fare tutti, a livello sociale è cambiare mentalità, per quanto riguarda la gogna mediatica.

Perché, stranamente, in questa società ancora indietro sulla tabella di marcia, c’è l’abitudine maligna e impietosa dei potenti, di colpevolizzare la vittima e non l’assassino. Anche qui, la motivazione nel farlo è circoscritta. E riguarda, anche la base della popolazione e il suo retaggio culturale che si trascina dal medioevo.

L’uomo viziato, ricco, anaffettivo e potente, può non percepire la gravità del reato criminale messo in atto in modo ripetitivo; crede anzi, in preda al suo delirio di onnipotenza, di massacrare esseri umani e restare impunito; crede di potersi comprare l’omertà di tutti, sbeffeggiando ogni legge dello Stato. Perciò, nella sua mentalità, se tutto si compra, ogni conseguenza alla peggiore azione compiuta non è mai grave. Ha ragione. Ce l’ha ogni volta che un altro uomo cede alle lusinghe della corruzione. Da soli, non ci si potrebbe mai salvare. Nemmeno con troppi soldi in tasca. Bisogna mettersi in testa che il crimine conclamato ma impunito, si accoppia alla corruzione. Non è un fatto che potrebbe riguardare solo due uomini, uno assassino l’altro giudice. Potrebbe toccare anche la vittima, quella incline a ritirare la denuncia.

L’approvazione sociale dell’impunità, nata nel mondo di sopra per redimersi da ogni peccato infernale, rinforza le identità anche nel mondo di sotto. Così, il povero seguace dei tanti ricchi violenti (il clone impotente?), colpevolizza la vittima sacrificale, allo stesso modo. “Svergognando” il genere femminile, pur non potendo tre ceci. E visto che la droga, altra piaga sociale, ormai si trova anche ai piani bassi (lo scarto che i ricchi non vogliono), non ci vuole molto, a generare ulteriore carneficina.

Così, per tutti, quando la donna è vittima di violenza, non importa l’età, quasi sempre “Se l’è cercata!”, perché “E’ lei che ha sedotto!”, e poi “Guarda come era vestita!” o, peggio, Si voleva divertire anche lei!”. Come se il divertimento di lei consistesse nel desiderare il massacro.

Questo senso comune di giudizio, autorizza socialmente gli uomini, sia ricchi che poveri, a disporre del corpo di una donna come proprietà. Ma anche per le donne, uscire dall’altro tipo di identità, quella che le vuole remissive servitrici fragili del potente protettore di casa, come si può ben capire, è difficile.

Nessuna delle due parti spezza la catena. La cosa peggiore, nella classifica dei guai che non aiutano a risolvere il femminicidio c’è la mancanza di solidarietà assoluta da parte di quelle donne incapaci di spezzare il gioco di identità (Meno male che intanto sta salendo la solidarietà parziale degli uomini).

Alcune non credono alle confidenze delle amiche violentate. Sono le più “libertine”, le più maschie, le dominatrici, le leonesse. Non le più caste, come invece si potrebbe pensare. E questo induce le ragazze, anche le più audaci, a non denunciare. Il ragionamento è questo: “Se non mi crede lei, che è una mia amica, figuriamoci un giudice maschio, o un amico, o mio padre”. L’importanza dell’accettazione sociale pare disincentivare l’importanza di affermarsi uscendo allo scoperto. Insomma: la società, alla fine, ci chiede sempre di adeguarci agli standard consolidati!

Inutile dire che la mancanza di solidarietà porta a una vita di silenzi, ferite interiori, sfiducia negli individui, solitudine, disistima e rassegnazione a una società malata. Ma diciamolo ancora. Fino a quando non sarà più inutile dirlo.

#nowomannopanel